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Liberi?

Quello che la quarantena (non) mi ha insegnato

Parco verde e torrente, in lontananza il Ponte all'Indiano, un viadotto purpureo.

Quando tutto questo sarà quasi finito, il giorno in cui usciremo di nuovo di casa senza un giustificativo nella tasca e, magari, potremo riprendere con una certa normalità la nostra vita quotidiana, quella che avevamo lasciato in sospeso, quando, insomma, l’emergenza si sarà quietata e, anche se non sarà tutto risolto, comunque ci saremo abbastanza vicini, prolifereranno le parole, i monologhi, le foto di tutto quello che abbiamo imparato dalla quarantena.

Ammiro, invidio e sicuramente guardo con un malcelato sospetto quest’abbondanza di improvvisa saggezza. Già ne sto avendo un assaggio sui social, nelle chat: non dubito della bontà e della veridicità di così ampia e profonda nuova conoscenza della vita e dei suoi semplici segreti, ma… c’è qualcosa che non mi torna. E non mi torna forse perché sono cinica, perché sono complicata, perché sono arrabbiata senza un vero motivo. Però rimane il fatto: tutte queste persone che si compiacciono della riscoperta dei piccoli piaceri, che hanno finalmente compreso quali sono le cose davvero importanti, quanto a lungo ricorderanno?

Chioma di un pioppo.

Questa è la mia riflessione; e vorrei vi fosse più speranza, più apertura, più luce.

Pare che in quasi due mesi di quarantena tutti abbiano riscoperto l’odore del pane appena sfornato e la consistenza della pasta fresca stesa e impastata sul tavolo della cucina, abbiano capito quanto fosse bello e non scontato passeggiare senza mascherina o andare al supermercato senza rimanere un’ora in fila, ad un metro gli uni dagli altri, senza nemmeno parlarsi. E come erano eccezionali tutte quelle banalità come il centro commerciale la domenica, l’aperitivo con gli amici e le scampagnate nel weekend!

La quarantena non mi ha reso migliore: affrontiamo la realtà. Non è che questa considerazione mi renda particolarmente orgogliosa, ma ho anche la tendenza ad essere troppo severa con me stessa.

Stamani mi sono svegliata all’alba, una costante in queste ultime settimane: sono uscita con i primi raggi del sole. Il quartiere di Firenze in cui abito non brilla per la qualità dell’aria e la gentilezza del vicinato, ma ha una grande risorsa a poche decine di metri di distanza: il Parco delle Cascine. In seguito alle norme per arginare il Coronavirus, tutti i giardini e le aree verdi sono stati chiusi, ma è ancora possibile, da una viuzza quasi sconosciuta, arrampicarsi sull’argine del torrente Mugnone e ammirare il parco rimanendo nella legalità. Quella macchia verde, sempre più ricca e rigogliosa, si sviluppa, infatti, sul lato opposto e si protende in un angolo sulla confluenza tra il torrente e l’Arno, quasi sotto il mastodontico Ponte all’Indiano, un viadotto di un rosso purpureo, un colosso in ferro, la cui miniatura è un piccolo ponte pedonale che porterebbe all’accesso ad una delle estremità del parco. All’inizio della quarantena gli alberi erano spogli: ho visto le gemme formarsi, tanti strani bitorzoli attaccati ai rami, e poi le prime foglie, i colori che cambiavano, l’erba che cresceva, i fiori…

Fiori di buganvillea.

Adesso è presente un’incredibile quantità di uccelli: una fauna per me totalmente inaspettata che si affaccia sempre più massicciamente, che alle sei di mattina reclama il proprio primato con cinguettii che giungono sempre più forti, da tutte le parti. Non solo corvi, cornacchie e piccioni, ma anche germani, aironi, gazzette, rondini e merli ed una quantità straordinaria di strani uccelli per me indistinguibili ma sempre diversi. Ho visto gli anatroccoli diventare più grossi, rincorrendo con una crescente sicurezza la loro mamma; ho visto i papaveri riempire i prati e la buganvillea sfiorire, il glicine lasciare il posto agli iris che sono esplosi dai loro bulbi. Nel silenzio, indisturbata, la natura ha ripreso il proprio battito. “Alla natura piace l’armonia”, così si è espresso il premio Nobel francese, Luc Montagnier, parlando di un Covid-19 che armonioso non è, e che, secondo lui (ai posteri l’ardua sentenza), non è naturale ma umano.

Passeggiando, mentre il solito cane mi riconosceva e mi saltava incontro ed il suo padrone gentile mi salutava, ho pensato a tutte le volte in cui mi sono soffermata ad ammirare le piccole cose, agli istanti che ho collezionato per dirmi che non stavo davvero apprezzando ciò che vedevo, vivevo, sentivo. Nessuno di noi aveva bisogno di una quarantena per sapere di non star apprezzando le piccole cose; ma ne abbiamo approfittato subito per poterlo esternare al mondo, dalla nostra finestra sull’altra realtà, quella digitale, che per molti è stata un’ancora in queste settimane.

Glicine in fiore.

L’uomo si aggrappa a ciò che conosce: al pane, agli amici, alla famiglia, alle semplici (ma non così semplici) gioie quotidiane; le riscopre e le disvela, ma l’uomo non cambia. Non vogliamo davvero pensare che forse un giorno, superato tutto questo, dovremo cambiare il nostro modo di vivere; quando la crisi economica investirà molti, quando la paura e la rabbia ci lasceranno, quando la noia e l’apatia dovrà essere scrollata di dosso, allora sarà valso a qualcosa aver riscoperto ciò che un tempo ritenevamo banale? O forse la sola riscoperta a nulla serve se non saltiamo un po’ oltre? Vediamo ciò che davamo per scontato, ma abbiamo imparato ad esserne appagati? La quarantena ci ha insegnato a restare presenti, a godere pienamente di un parco sull’argine opposto di un torrente che non può essere attraversato? Usciti di casa, di nuovo liberi, quanto impiegheremo a tornare ad avere fame? E nel mondo che ci aspetta, nell’economia e nelle difficoltà che si preannunciano, fiaccati nel fisico e nella mente dai giorni trascorsi in casa, a chi davvero darà gioia l’odore del pane e chi costruirà il tempo per impastare una pizza?

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