Riflessione sul saggio autobiografico A libro aperto di Massimo Recalcati
È molto improbabile che avrei mai letto A libro aperto di Massimo Recalcati se non fossi andata alla sua presentazione alla libreria Feltrinelli il 18 gennaio scorso. Lo dico con grande onestà: non trovo interessanti i libri che parlano di libri. A parte La mia biblioteca di Herman Hesse, che mi è piaciuto anche se ne ho dei ricordi un po’ fumosi, non credo di aver letto mai alcun saggio che parlasse della lettura. Mi piacciono, come ad ogni brava laureata in Lettere, i libri che hanno anche un risvolto meta-testuali, quelli che velatamente contengono riflessioni sulla scrittura, e coerentemente apprezzo abbastanza tutto il post-moderno italiano. Tuttavia se avessi dovuto leggere un saggio di Recalcati avrei preferito proseguire il percorso che ho iniziato con Il segreto del figlio e Cosa resta del padre? Invece le casualità della vita ti portano a scegliere anche libri su cui, di primo acchito, avresti soprasseduto. Per farla breve: non volevo perdermi l’occasione di assistere dal vivo ad un intervento di Recalcati, mi sono dimenticata un libro da far autografare e alla fine ho comprato quello del quale ha parlato.
L’assunto fondamentale è che noi assomigliamo ai libri che leggiamo. Su questo non ho mai avuto alcun dubbio. Forse non è un caso che io, in questo specifico momento della mia vita, quando fatico a concludere una qualsiasi lettura, sia riuscita a portare in fondo questa: credo di stare cercando di ricordarmi qualcosa. Secondo Recalcati il libro è un mare, è aperto: è di tutti ed è un luogo di incontro. “Wittenstein ricordava giustamente che i confini del mio linguaggio determinano i confini del mio mondo. Il che significa che tanto più si arricchisce il mio linguaggio, tanto più aumenta la mia possibilità di fare esperienza del mondo“ (p. 39). Non vi è quindi un netta contrapposizione, come molti vorrebbero, tra il libro e la vita. Il libro è anche un corpo, è vivo: ha una sua propria vita; ed è un taglio nel continuum storico della nostra esistenza. Una lettura può essere come un amore: non saremo più come prima; è ciò che è successo a Beckett con Joyce, a Sartre con Heidegger, a Lacan con Freud. A tutti noi è accaduto e Recalcati fornisce nove esempi di libri che lo hanno cambiato.
È interessante l’idea di essere letti dal libro che stiamo leggendo. Il libro rispecchia qualcosa che è dentro di noi, che ci appartiene le profondo. Al contrario vi sono libri che rinsecchiscono l’evento vitale del mondo: Recalcati li chiama erbari.
La seconda parte di A libro aperto svolge il sottotitolo di questo saggio/biografia: una vita è i suoi libri. A partire dall’Odissea e attraverso La nausea di Sartre ed Essere e tempo di Heidegger fino ad arrivare agli Scritti di Lancan e a La strada di McCarthy, Recalcati ripercorre la propria esistenza e come essa si sia modificata in seguito alle diverse letture: dalle questioni più filofosiche/esistezialiste alla scelta di intraprendere la via della psicoanalisi fino alla nascita del suo primo figlio. È in un certo senso appassionante vedere solo squarci di pensiero, di anni, di eventi, solo attraverso la lente di ciò che viene letto. Per me è stato anche, lo confesso, piuttosto difficile: ci sono alcuni punti abbastanza ostici, soprattutto per chi non ha studiato filosofia o ha conoscenze solo sommarie degli autori di cui Recalcati parla. A volte si ha l’impressione che stia scrivendo per se stesso, non perché i lettori comprendano: mi innervosisce e coinvolge al tempo stesso.
È un saggio piuttosto presuntuoso.
Leggendo non cerchiamo idee nuove, ma pensieri già da noi pensati, che acquistano sulla pagina un suggello di conferma. Ci colpiscono degli altri le parole che risuonano in una zona già nostra – che già viviamo – e facendola vibrare ci permettono di cogliere nuovi spunti dentro di noi.
Cesare Pavese, “Il mestiere di vivere: Diario 1935-1950”, 1952.
Vi sono alcuni temi ricorrenti: la vita, la morte, la libertà, la determinazione di se stessi, il rapporto con gli altri. Sono questioni esistenziali che cercano risposte, che assumono sfumature diverse a seconda del libro letto. Mi hanno colpita due passi in particolare:
“Era questa la colpa più radicale della vita: credere di essere qualcuno, di essere un Io, di avere il diritto di esistere.”
M. Recalcati, A libro aperto. Una vita è i suoi libri, Milano, Feltrinelli, 2018, p. 110.
“Gesù aveva sconfitto la morte o la paura della morte? Ma non è forse che sconfiggendo la paura della morte si sconfigge anche la morte in quanto tale? non è la paura di morire che ci impedisce di vivere? E la paura della morte non sarebbe, da questo punto di vista, la stessa cosa della paura nei confronti della vita?” (p. 124)
Sono parole che mi leggono dentro, sono qualcosa che, avessi avuto altre capacità, avrei potuto scrivere io. In fondo è un concetto che ritroviamo in molti scrittori: Pessoa, Pavese, Proust, solo per citarne alcuni.
Nella mia vita non sono molti i libri che mi hanno letta e non hanno un filo conduttore, come quello di Recalcati. Temo sia uno dei problemi di chi non accetta un’identità univoca. Il primo a venirmi in mente è L’arte di vivere di Goliarda Sapienza, un romanzo che mai avrei scelto di leggere, ma che mia madre mi ha regalato una decina di anni fa e che ho cominciato senza grandi speranze. Quel libro rispecchia molte anime che coesistono in me, ma soprattutto verbalizza un’idea che sul momento non ho applicato, ma che nel tempo mi sono trovata ad utilizzare: la felicità è un atto di volontà. Forse non per tutti, ma per me lo è. La felicità non mi capita, la devo costruire ogni giorno con infiniti sforzi. Penso di essere una persona felice, non pienamente soddisfatta né contenta, mai quieta, mai in pace, ma sostanzialmente felice. Potrei godere di più della mia felicità di fondo se ricordassi quanto essa dipende dalla mia volontà di focalizzarmici. Può essere stancante, ma ne vale sempre la pena.
LEGGI ANCHE …