Un giallo in un dialogo sull’esistenza
Regalo per l’epifania: meno male che esistono i doni natalizi e che ancora i miei familiari e gli amici più cari non hanno perso l’abitudine a regalarmi libri! Questo, in particolare, è un presente di mia zia, ma lo zampino di mia madre aleggia ovunque. Potrei descrivere la mia impressione sul contenuto dell’ultima uscita di Erri De Luca con una parola: splendido. Splendido sotto molteplici punti di vista e per tutti i livelli in cui il libro si può leggere, ma soprattutto per il modo, la non invadente profondità con cui sono trattati temi diversi, attuali, dell’esistenza di ognuno.
La storia, che sarebbe un giallo, si dipana intorno al dialogo tra i due personaggi principali: un magistrato e un accusato, del quale sono riportate alcune lettere all’amata. Si scopre presto che egli, ormai in età avanzata, ha preso parte alle Brigate Rosse e per questo è stato a lungo in carcere; liberato, si è appassionato alla montagna e, proprio durante una passeggiata, ha dato l’allarme, vedendo un corpo in fondo ad un dirupo. Il cadavere altri non era che un vecchio compagno degli anni giovanili, colui che fu il delatore, che testimoniò e fece i nomi degli altri, tra cui anche quello del protagonista; il motivo, insomma, per cui fu incarcerato. La domanda intorno alla quale dovrebbe girare il libro è: è stato lui ad ucciderlo? Dico “dovrebbe” perché in realtà, sebbene essa sia ciò che il magistrato vuole dimostrare, il lettore acquisisce quasi fin da subito la consapevolezza che la risposta non è poi così importante. Il dubbio rimane e con esso anche un’ulteriore perplessità: l’autore sceglierà di svelare l’assassino?
Nel dialogo, tra domande e risposte, si affrontano intanto temi diversi. In primo luogo la montagna, come essa possa essere lo strumento per prendere le distanze dal mondo, ascendere attraverso una salita materiale, astrarsi e riflettere, con se stessi, con la sola bellezza della natura. Lì è lo scopo; non ne servono altri.
Erri De Luca, Impossibile, Feltrinelli, Milano, 2019, p.17.
“Non abbiamo mandanti. Non servono, basta la montagna per muovere. Buffo gioco di parole, no? La montagna, immobile per costituzione, è movente. Proprio così: fa muovere verso di essa. Ognuno ha il proprio motivo per andarci. Il mio è dare le spalle a tutto, prendere distanza. Mi butto indietro il mondo intero. Mi sposto in uno spazio vuoto e anche in un tempo vuoto. Vedo com’era il mondo senza di noi, come sarà dopo. Un posto che non avrà bisogno di essere lasciato in pace”.
Centrale in tutto il libro è il rapporto con il passato e la descrizione degli anni ’70 e ’80, mossi da lotte e motivazioni che paiono assurde al mondo d’oggi. E’ una prospettiva diversa, quella offerta dall’accusato, che ha vissuto tutto in prima persona, una visione ricca e sentita, inedita per il magistrato che fino a quel momento ha solo letto sentenze e libri di storia. Mi paiono di particolare bellezza le pagine dedicate all’affermazione di Sciascia, secondo il quale ”anche un atto politico criminale come quel rapimento con strage della scorta riguarda solo chi lo ha commesso. Il crimine, anche se eseguito a titolo collettivo, resta di responsabilità individuale” (p. 66). Davvero? Questo si domanda l’accusato, il quale giunge alla conclusione che è vero solo dal punto di vista umano: l’ergastolo, ad esempio, è toccato anche a coloro che non parteciparono direttamente al crimine, così come anche la voce di “anni di piombo” fu applicata pure a quei rivoluzionari che non si unirono alle bande armate. Pare, qui, che la responsabilità non sia individuale.
p. 67
“Allora di cosa stava parlando Sciascia? Del rimbalzo emotivo che l’azione armata scarica su chi la esegue. La motivazione politica non protegge i nervi del partecipanti dalle conseguenze di lungo periodo. E ci si trova a pensare: quell’azione che allora si dava per necessaria e urgente, oggi parrebbe assurda. Il tempo trascorso scoperchia il rivestimento della ragione politica, isola il partecipante. Quei colpi continueranno a rimbombargli dentro.
Sciascia ha ragione sul piano umano, la responsabilità è individuale.”
Si tratta di una riflessione interessante. Una di quelle alle quali è difficile dare una risposta e la ragione non è da una sola parte. Nel mondo d’oggi, oserei dire, ancora di più che in quello di allora.
Altro tema che mi ha molto toccata è quello del tempo. I due personaggi sono separati da un divario temporale importante: il magistrato è giovane, l’accusato è anziano. Si tratta di una delle molte contrapposizioni: il ruolo, la differenza di potere, la prospettiva e le conoscenze, lo scopo, ma anche, banalmente, l’approccio alla vita. L’accusato si rivela molto consapevole del tempo, come esso possa giocare a suo favore, poiché è anziano e non ha più l’impazienza e l’ardore della giovinezza; ma non si tratta, come dice il magistrato, di un’ingiustizia: è il ciclo della stessa esistenza. Decine di anni prima il tempo aveva giocato a sfavore dell’accusato, ora era il contrario e il giovane di adesso sfrutterà tra molti anni il vantaggio della vecchiaia su chi si troverà ad interrogare. Vi è sempre, in tutto il libro, nelle domande e nelle risposte, nelle lettere, la ricerca di un equilibrio, un’armonia, un ritmo che è quello della vita stessa. Il tempo non si spreca, a meno che non lo si trascorra annoiandosi. Si impara a far tesoro di ciò che viene offerto, ad accettarlo e utilizzarlo, così che niente vada realmente perduto.
p. 119. (molto post-moderno… ndr)
“(…) è sempre la stessa nuova storia. Lo so da lettore, leggo varianti di storie già narrate di amori, viaggi, esiti, pene, scoperte. Sono variazioni sul tema, perciò nuove.
Mi fa lo stesso effetto la vita. Rinnova le sue ripetizioni e mi meraviglia la sua capacità di agire sui dettagli dentro la cornice fissata al muro.”
In questa prospettiva tutto si ripete e tutto cambia costantemente. Goderne è un’abilità che si acquisisce col tempo, è il percorso per trovare pace.
Mi soffermo, infine, brevemente sul rapporto tra l’accusato e l’amata, narrato attraverso le lettere da lui scritte nella cella. Non si sa molto di quest’amore, che ha la caratteristica di essere elegante, impalpabile, ma con dettagli di realistica quotidianità (sprazzi di dialoghi, ricordi di colazioni e giornate in montagna). La poeticità e la bellezza di un uomo e una donna tra cui sono cadute le finzioni, tra i quali le maschere, il passato e persino il futuro sono solo secondari.
“L’affare fatto tra noi sono queste attenzioni. L’eleganza non sta nel guardaroba, ma nelle premure di due che stanno insieme.
Siamo alle seconde volte, non contate più.”
p. 50.
Impossibile trae il proprio titolo dalla coincidenza (che pare appunto impossibile) di un uomo che si è trovato sullo stesso sentiero di un altro, un altro, che un tempo aveva conosciuto e che lo aveva denunciato, un altro che precipita in un dirupo.
Le coincidenze governano la nostra vita, ma solo a volte ce ne accorgiamo, le sopravvalutiamo e le sottovalutiamo secondo il senso che vogliamo attribuire, secondo il significato che stiamo dipingendo, in accordo con la storia che narriamo degli eventi, della nostra intera vita.
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