Legge Versace e dov’è il Made in Italy
Settimane della moda. Sono ricominciate e persino io sono attratta da quei mondi scintillanti e (apparentemente) bellissimi. Diciamoci la verità: chi non vorrebbe, più o meno segretamente, indossare un abito stupendo, essere pettinato perfettamente e sentirsi sicuro di sé di fronte ad un mare di persone altrettanto glamour? Certo, nella vita “reale” la maggior parte di noi non pensa molto a quanta distanza ci separa da quel mondo patinato, ma durante le diverse fashion weeks siamo un po’ costretti a guardare dallo spioncino questo universo parallelo in cui sono tutti belli e felici. Già, ma a che prezzo?
Non sono certo il tipo di persona che si lancerebbe mai in un articolo di inchiesta, scrivendo una sequenza di dati e dimostrando come il mondo della moda sia sudicio e corrotto, con capi venduti a costi esorbitanti ma con un valore di pochi centesimi dati a lavoratori sfruttati in tutto il mondo. Tuttavia, la sequela di video, l’inondazione di foto e gli articoli sulle riviste non hanno potuto che risvegliare nella mia memoria un libro che ho letto non molto tempo fa: Made in Italy? Il lato oscuro della moda di Giuseppe Iorio.
Prima osservazione da fare: come è possibile che un libro simile, così ricco di dettagli, così accurato nelle ricerche e nelle testimonianze, scritto, tra l’altro, da qualcuno che il mondo della moda l’ha abitato in prima persona, non abbia avuto successo? Perché non c’è stato uno scandalo? Perché io ho dovuto scoprire dell’esistenza di questo saggio dal mio collega appassionato di moda, invece di averlo visto a chiare lettere in dozzine di recensioni? Eppure è del 2018… Probabilmente un libro che fa i nomi di grandi delocalizzatori quasi schiavisti non è abbastanza glamour; dopo tutto, ora è di moda l’ambiente ed è quindi poco interessante l’inchiesta sullo sfruttamento di essere umani (poco importa se le cose possono essere legate).
Ho lavorato per più di un anno in un negozio di sartoria maschile in centro a Firenze, Piero Puliti: camicie, gillet, cravatte e papillon, bretelle, cinture e tanto altro, quasi tutto vero made in Italy, molto fatto a mano. Conosco un pochino i tessuti e so senza ombra di dubbio quanto può costare ad un negoziante una camicia fatta a mano 100% cotone italiano doppio ritorto. Ho letto il saggio di Iorio proprio in negozio, nelle pause tra un cliente e l’altro: non penso avrebbe potuto esserci luogo migliore.
Lo stile brillante e vivace, giornalistico, avvicina fin quasi a far toccare con mano realtà di cui crediamo di essere a conoscenza, ma che in verità non immaginiamo neppure. “I vestiti sono fatti dai cinesi”, ma lo sapevamo che alcuni di essi sono negli scantinati sotto Prato? “In realtà vengono dalla Romania”, ma eravamo a conoscenza del fatto che i romeni dopo decenni hanno preteso maggiori diritti e le grandi marche si sono impegnate ad importare operai cingalesi proprio in Romania? “Ma qui c’è scritto Made in Italy”: certo, perché la legge (la Legge Versace, guarda caso…) prevede che si possa attaccare quell’etichetta a patto che almeno due dei processi di produzione avvengano in Italia (ad esempio attaccare i bottoni o confezionare il capo). Perché i falsi sono fatti così bene? Perché sono prodotti nelle stesse fabbriche e rivenduti non dal brand griffato! In realtà sono perfettamente identici.
Leggere Made in Italy fa venire i brividi, fa spuntare le lacrime agli occhi. Perché è reale, perché sappiamo che è una denuncia fondata e perché ci costringe a ripensare al nostro modo di comprare. Siamo colpevoli, eppure nessuno di noi può davvero prendersi una responsabilità collettiva.
Già prima di questo saggio avevo cominciato a ripensare il mio modo di acquistare: più prodotti usati, più negozi vintage, più acquisti di cui ero sicura dei materiali e dell’origine. Ancora adesso lo sto facendo, ci provo con tutte le mie energie. Possiamo migliorare, divenire consumatori più consapevoli, ma non possiamo uscire dal sistema. E quindi, inevitabilmente, non potremo mai essere assolti.
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