Una scoperta inaspettata
Parliamoci chiaro: non coltivavo quasi alcuna speranza che questo libro, già definito dalla mia mente “mattone”, mi sarebbe piaciuto. Le sue quasi quattrocento pagine, scritte con impaginazione noiosa e un carattere a volte sbavato che scoraggia la lettura, erano ai miei occhi un solido ostacolo anche solo a tentare l’impresa. Considerando, poi, lo stile di Svevo per oltre trecentocinquanta di esse ed un’introduzione con un carattere in dimensioni ancora più piccole del resto del testo, l’impresa appariva impossibile. Doveva sembrare così anche al librario di Mucho Mojo perché mi ha regalato il compatto tomo quando ho acquistato altri libri usati… Ricordo molto bene la nostra buffa conversazione: “No, non lo prendo… tanto lo trovo sempre!”, mi sono schermita io, che avevo mostrato interesse per Svevo perché sono all’eterna ricerca del suo primo romanzo, “Una vita”. “Ma via, su, te lo regalo io!”, ha insistito lui ficcando l’edizione degli ultimissimi scritti nel mio sacchetto già stracolmo.
Sono convinta che i libri ci chiamino quando hanno bisogno di essere letti. A volte sentiamo male, altre ci incaponiamo nel dovere di compiere alcune letture, altre ancora ci inganniamo sperando che prima o poi dovremo pur finire quel romanzo… Ma se prestiamo attenzione i libri ci chiamano proprio nel momento giusto. Non è un caso che le Novelle di Italo Svevo mi abbiano irretita, occhieggiando tra le altre possibilità offerte dallo scaffale, durante il mio isolamento a causa del Covid. Quale migliore occasione? Certo, non era la lettura più riposante che potessi immaginare mentre affrontavo i sintomi, per fortuna lievi, della malattia più dibattuta degli ultimi anni, ma almeno avevo tutto il tempo che desideravo.
Ecco, dunque, che con estrema e sorprendente facilità ho solcato le centinaia di pagine in qualche settimana e ho trovato le Novelle una lettura interessante e persino gradevole (per quanto lo possano essere le storie proposte da Svevo). Lo stile dell’autore, inoltre, rimane sempre quello dello “scrivere male”, che, però, a me non è mai dispiaciuto e a cui tutti, secondo me, possono abituarsi, se non addirittura apprezzare.
Questo libro mi ha anche offerto la possibilità di scoprire un lato per me sconosciuto del celebre autore: la produzione di racconti, in particolare quelle da lui stesi, mai pubblicati e lasciati spesso incompleti, tra l’uscita della Coscienza di Zeno nel 1923 e la morte nel 1928. La sezione finale, inoltre, riporta decine di pagine che dovevano essere poi incluse nell’ultimo romanzo, il cui titolo rimane per Svevo sempre incerto tra Il Vecchione e Il Vegliardo.
È molto interessante notare come il tema dell’inettitudine, costante in tutta la produzione, torni qui in una declinazione particolare: il vecchio è infatti ormai inetto per motivi oggettivi, cioè il tempo trascorso, il decadimento fisico, la vecchiaia stessa. Il vegliardo è afflitto dai propri anni e dall’appressarsi della morte, ma non riesce comunque ad intrattenere un rapporto diverso, più sano, con la vita, rimanendo sempre nello stato della malattia. Oltre a ciò, l’incompiutezza cronica che affligge i personaggi di Svevo, la loro inettitudine, può divenire qui il paradossale strumento con cui tenere a distanza la morte.
La narrazione rimane sempre piuttosto angosciante e mai edificante, con quel tocco di amara ironia e l’altalena costante dei personaggi tra la menzogna e l’autoinganno e la consapevolezza ricacciata indietro; a volte troviamo persino la compresenza di entrambe. Sentiamo attraverso le pagine la voce tagliente di Svevo narratore, i suoi interventi ironici: rintracciamo in essi una strana e ambigua avversità e alleanza con i personaggi.
“Era giusto di tranquillizzarsi con tanto egoismo? Non sarebbe stato meglio di soffrire per i posteri? Il signor Aghios sorrise. Il mondo era costruito tanto bene che certi dolori sono impossibili.”
p. 171
“Il sentimento di essere tanto buono minaccia di portarci ad essere meno buoni.”
p. 281
Tornano i temi cari a Svevo: il fumo, il rapporto genitori e figli, in particolare tra padre e figli, il denaro e la malattia, il tempo. Nelle novelle troviamo uno schema narrativo che si ripete. L’inerzia quotidiana in cui il vecchio aveva perduto il senso della vita viene improvvisamente scossa da un evento imprevisto che lo risveglia dal torpore: è questo il ruolo del vino nel primo racconto, in cui il protagonista insorge contro la dieta e la propria famiglia; l’improvvisa, anelata e temuta, notizia del successo letterario in Una burla riuscita; l’occasione del viaggio con una tasca colma di denaro in Corto viaggio sentimentale e un ultimo innamoramento in La novella del buon vecchio e della bella fanciulla. Interessante come il tema del tempo sia declinato nelle varie narrazioni: il presente, l’esperienza nuova e imprevedibile, sottopone il passato ad un diverso giudizio e il protagonista deve fare continui assestamenti (ad esempio l’incompiuto racconto de L’avvenire dei ricordi).
“Io vivo con la stessa inerzia con cui si muore.”
p. 349
Ricorrente è il connubio sesso-denaro, la cui problematicità viene rinnegata dal vecchio attraverso un travestimento morale (in La novella del buon vecchio e della bella giovane) o addirittura sanitario contro la malattia per ingannare Madre Natura che costringerebbe alla morte (in Il mio ozio).
Altro tema ricorrente è quello del sogno, sempre gremito di topoi freudiani, che sono così numerosi ed eccessivi da impedire l’interpretazione perché vi sono troppi simboli. Ciò che è sicuro è il ruolo che il sogno ha nei racconti: non solo sottolinea il vissuto, ma è una vera molla narrativa che spinge l’azione verso l’epilogo.
La scrittura è riconosciuta come unico strumento per nobilitare la vita, attribuire un senso, correggere a posteriori, forse non guarire ma aver pace, rassegnarsi (“(…) ricordati di non lagnarti troppo della vecchiaia in queste annotazioni. (…) Chi può togliermi il diritto di parlare, gridare, protestare? Tanto più che la protesta è la via più breve alla rassegnazione.”, p. 355).
Come scrive Gabriella Contini nell’introduzione: Svevo ci dice che il “Destino dell’uomo è la scrittura (…) Si scrive per abolire la scrittura: cioè per guarire e non scrivere più” (p. XV).
Negli ultimi racconti torna la figura di Zeno come vegliardo: antico malato, psicanalizzato senza successo, torna a vivere proprio nel momento in cui riprende in mano la penna. Incontrare Zeno invecchiato, alle prese con l’estromissione dalla vita lavorativa (Il contratto), in lotta con un corpo in decadimento (l’ossessione per la medicina ne Il mio ozio e Il Vecchione), impegnato nei rapporti con i figli e il piccolo nipote (Le confessioni del vegliardo e Umbertino), è stato per me come riconoscere un vecchio amico che ero certa non avrei più rivisto: gioioso e intrigante, ma con un pizzico di malinconia.
L’introduzione e il commento di Gabriella Contini, insieme con una non pesante cronologia della vita e delle opere di Italo Svevo, offrono importanti chiavi di lettura e contestualizzano la stesura di queste novelle. Da laureata filologa, poi, non possono non apprezzare il fatto che riporti quanto Svevo abbia appuntato sul retro dell’ultimo foglio dattiloscritto, proponendo Zeno come anti-Faust: a lui Mefistofele non apparirà perché non ci sono giorni della sua vita che vorrebbe rifare…
In conclusione, le ultime novelle di Svevo sono amare, come la vita, le nostre autoillusioni, la vecchiaia e l’avvicinarsi ineluttabile della morte, che si tenta invano di ingannare con barlumi e pretese di ritrovata gioventù.
“Della gioia resta il rimpianto ed è anche esso un dolore, ma un dolore che copre quello fondamentale, il vero dolore della vita.”
p. 3
“Occorre ben altro che parole per guarire le ferite prodotte dalle parole. (…) Le cose non dette hanno una vita meno evidente di quelle che sono state rivelate dalla parola, ma una volta che questa vita l’hanno acquistata, non se la lasciano sminuire da altre parole soltanto.”
p. 58
IL LIBRO
Italo Svevo, Novelle, a cura di Gabriella Contini, Oscar Mondadori, Trento, 1996 (I edizione 1986).
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