A Prato la mostra con inediti del Seicento
Visitare la mostra “Dopo Caravaggio” (14 dicembre 2019 – 13 aprile 2020), al Museo di Palazzo Pretorio di Prato, è senza alcun dubbio un’esperienza da fare. Consigliatissima è la visita guidata, che si svolge tutte le domeniche alle ore 16 (meglio prenotare in anticipo): le opere del museo dialogano con quelle della Fondazione De Vito, secondo una sequenza cronologica, stilista e tematica. La mostra, per il numero ridotto dei quadri e per la loro grande qualità, è godibile per tutti e permette di soffermarsi sui diversi dipinti, ammirandone la fattura, cogliendo i riferimenti e le influenze, riflettendo sui messaggi proposti.
La mostra raccoglie un totale di 20 opere, quattro delle quali provengono dal Museo di Palazzo Pretorio, mentre le altre sono esposte per la prima volta al pubblico dalla Fondazione De Vito. Essa è nata nel 2011 e raccoglie una straordinaria collezione di opere e un enorme archivio nella Villa Olmo a Vaglia, purtroppo non visitabile; tale collezione si origina dagli acquisti e dagli studi dell’Ingegnere De Vito sul Seicento. Fu infatti tra i primi ad interessarsi a questo secolo.
Il titolo della mostra Dopo Caravaggio, fa riferimento all’affermazione del critico Longhi, il quale sosteneva che a Napoli era possibile distinguere un prima e un dopo il passaggio di Caravaggio: gli artisti ne furono infatti notevolmente influenzati. Nel 1606 Caravaggio (Michelangelo Merisi) fu costretto a lasciare Roma, dove era protetto dal Cardinale Del Monte, il quale gli aveva anche commissionato numerose opere, poiché accusato di omicidio; giunse così a Napoli e vi rimase fino al 1607. Numerosi furono gli artisti che si ispirarono a Caravaggio e sono per questo chiamati caravaggeschi.
Uno di essi, Battistello (il napoletano Giovanni Battista Caracciolo), conobbe direttamente il grande pittore ed i suoi quadri ne risentono l’influenza. Ne sono un chiaro esempio quelli esposti in mostra. Il primo di essi, Noli me tangere, è del 1618 ed è parte della collezione del Museo di Palazzo Pretorio; Battistello lavorava in Toscana su commissione di Cosimo II de’ Medici, il quale amava già Caravaggio. L’opera narra un episodio dei Vangeli: Maria di Magdala, recatasi al sepolcro di Cristo, lo trova scoperchiato ed incontra un contadino/pastore (che è Cristo stesso), il quale le intima “Noli me tangere!”, ovvero “Non mi trattenere”. Maria, infatti, ha una natura umana, terrena, mentre Cristo deve ascendere.
L’altra opera di Battistello esposta, San Giovanni Battista fanciullo (1625-30), mostra come egli traesse i propri soggetti dal popolo: ne sono un chiaro segno le mani arrossate del giovane. Ciò è simile a Caravaggio, da cui è ripreso anche il drappo rosso. Il quadro è tra quelli restaurati in occasione della mostra.
In mezzo ai due quadri di Battistello ne spicca uno di Massimo Stanzione, San Giovanni Battista nel deserto: si tratta di una filiazione dal quadro di Caravaggio, sempre sul medesimo soggetto, adesso conservato a Kansas City. Stanzione rielabora il modello, aggiungendo, ad esempio, l’agnello.
Il nucleo che più mi ha colpita è senza dubbio quello dedicato ai ritratti di saggi, partendo dal magnifico quadro di Jusepe De Ribera: Sant’Antonio abate (1638). Si tratta di una delle prime opere acquistate da De Vito, su suggerimento di Raffaello Causa, soprintendente di Capodimonte e quindi esperto d’arte. De Vito, infatti, nacque a Napoli ed intraprese la carriera di ingegnere; sposò Magaret Barry e si dedicò all’arte solo per passione. La conoscenza con Causa fu di fondamentale importanza perché fu lui a dargli preziosi suggerimenti sugli acquisti alle aste. Uno dei primi fu proprio questo quadro di Ribera: si pensava fosse solo della bottega, ma, esaminandolo con attenzione, si notano la firma dell’artista e la data dell’opera. Ribera utilizza la stessa tecnica di Caravaggio, passando dagli scuri ai chiari, mentre Battistello faceva viceversa. La tipologia di quadri dedicata ai saggi ebbe una grande fortuna nel Seicento: ci si focalizza sulla grandezza interiore, mentre l’esteriorità rimane sempre umile; le vesti solo lacere, ma lo sguardo rendere la profondità interiore. L’influenza si deve ai circoli neo-stoici e cinici che si formarono a Napoli in quegli anni. Il quadro entra in dialogo con il San Giovanni di Caravaggio, ma anche con molti altri contemporanei, come quelli esposti di seguito nella mostra: il Vecchio in meditazione con un cartiglio (che riflette sulla caducità della fortuna), l’Uomo in meditazione davanti a uno specchio (da notare che l’occhio riflesso è chiuso, segno che potrebbe indicare l’allegoria dei sensi, in particolare la vista), il Giovane che odora una rosa (forse allegoria dell’olfatto; da notare come non si comprenda se sia maschio o femmina, forse si tratta di un ritratto, di un attore o di un femminiello), l’Uomo con cartiglio. Quest’ultimo dipinto, di Francanzano, raffigura un cartiglio vuoto: il vecchio sta ancora meditando la scrittura; si tratta di un saggio o di un profeta, sebbene non sappiamo quale.
La successiva serie di quadri rispecchia un’altra moda del Seicento: la rappresentazione delle martiri cristiane, che però non sono più dipinte come le sante del Medioevo (caratterizzate dal fondo d’oro e dalla grande rigidità). I quadri, infatti, come dimostrano anche le dimensioni ridotte, non sono destinati agli altari delle chiese, ma ad una devozione privata. Si spiega così il modo di rappresentare le Nozze mistiche di Santa Caterina d’Alessandria, che l’artista, Paolo Finoglio, dipinse per il matrimonio della figlia, attualizzando la scena con i vestiti dell’epoca; il Martirio di Sant’Orsola; Sant’Agata, che mostra solo uno dei due seni feriti, mentre l’altro è ancora intatto e le tenaglie non sono visibili; Santa Lucia di Cavallino. La martire sembra una nobildonna e solo lo sguardo vacuo e gli occhi appoggiati sul tavolino danno l’indicazione del vero soggetto del dipinto.
La sala si conclude con due quadri di grandi dimensioni, probabilmente realizzati da De Bellis per qualche ordine ecclesiastico: uno rappresenta Cristo e le Samaritane al pozzo, su cui è in rilievo la storia di Mosè che fa scaturire le acque, mischiando Vecchio e Nuovo Testamento, l’altro l’episodio della fuga da Babele di Loth e delle figlie.
La seconda sala è di minori dimensioni e dedicata ad artisti napoletani, alcuni dei quali si trovano ad operare a Prato su commissione della famiglia Vai. Mattia Preti, in particolare, è l’autore di un grande dipinto: il Ripudio di Agar, tratto dall’episodio del Vecchio Testamento in cui la serva Agar fu cacciata col figlio da Abramo, il quale era anche padre del bambino, su consiglio della moglie Sara, che cercava così di tutelare la propria progenie, Isacco. Su invito divino, Abramo cede alla richiesta della consorte. Vediamo come Agar si sia appena voltata, colpita e addolorata dal ripudio.
La medesima modella che Preti utilizzò per questo quadro è ravvisabile anche in quello accanto: Scena di carità con tre fanciulli mendicanti. Qui sono rappresentati tre giovani che chiedono la carità e un monaco, sullo sfondo, che distribuisce le elemosine. Si tratta forse di un’allegoria della carità; cosa che spiegherebbe le grandi dimensioni dei fanciulli, sproporzionati rispetto al resto del quadro. Probabilmente la committenza era un ordine ecclesiastico, ma il dipinto non è concluso. Preti si ispirò all’epidemia di peste che a metà del Seicento si abbatté su Napoli e che contribuì alla fortuna dell’artista, poiché egli era in salute e poteva dipingere quasi senza competitori.
L’ultimo quadro di Preti della sala è la Deposizione di Cristo dalla croce (1675): colpiscono lo scorcio ardito e la torsione, entrambi di ispirazione caravaggesca.
Nicola Malinconico è l’autore del grande quadro che rappresenta la parabola del buon samaritano, il quale si ferma e cura il ferito, compiendo una vera opera di misericordia. Notiamo come la tavolozza dei colori si sia schiarita… questo caratterizzerà il Settecento.
Infine, nella seconda sala, vi è un quadro non esposto, sempre del Museo di Palazzo Pretorio: si tratta del Giacobbe e il gregge, probabilmente di Ribera, ma la cui attribuzione sarà certa solo dopo il completamento del restauro. Attraverso lo schermo vediamo il confronto con l’originale di Ribera, conservato al museo El Escorial di Madrid, e seguiamo le fasi del recupero del quadro ad opera dell’Opificio delle Pietre Dure di Firenze. Il dipinto era così rovinato da essere considerato irrecuperabile, ma il restauro sta togliendo lo sporco e gli strati delle altre vernici, restituendo l’opera al suo originario splendore. Una volta completato, il quadro, che prima si trovava nell’archivio del museo, troverà la propria collocazione all’interno della collezione esposta. Questo è anche lo scopo di mostre come questa: rilanciare e valorizzare opere altrimenti dimenticate, studiare e approfondire artisti e periodi come il Seicento, dopo Caravaggio.
INFORMAZIONI
– Museo di Palazzo Pretorio
– Fondazione De Vito
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