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CRUDEZZA E INNOCENZA

L’avvincente lettura de Il treno dei bambini di Viola Ardone

Panorama di una campagna assolata, alcuni campi verdi, altri marroni.

Altro regalo natalizio di mia mamma, questa volta letto in grande ritardo: ho voluto approfittare della mia breve parentesi in montagna per dedicarmi ad un romanzo che altrimenti avrebbe navigato dal comodino alla libreria al tavolo del salotto, accumulando polvere senza essere degnato del giusto tempo e della meritata attenzione.

Sono sempre scettica verso i libri che vogliono raccontare una parte della storia, soprattutto se incontro una piccolissima difficoltà linguistica iniziale dovuta ad uno stile che riproduce il pensiero e il sentimento di un bambino nato e cresciuto in un rione di Napoli. Invece, dopo una dozzina di pagine di diffidenza, questo libro mi ha conquistata e l’ho divorato in pochi giorni.

Viola Ardone racconta di un fatto storico realmente accaduto: dal 1946 al 1951 ebbe luogo l’azione del Partito Comunista Italiano che ha portato all’accoglienza (temporanea) di circa settantamila bambini del Sud Italia nel Nord. L’operazione aveva lo scopo di ospitare per alcuni mesi i poveri del Mezzogiorno presso famiglie più o meno benestanti del Settentrione, dando sollievo ai genitori e ad altri eventuali fratelli e offrendo un’opportunità ai piccoli. Il titolo del romanzo fa riferimento proprio a questo: il treno dei bambini che andava verso nord.

Copertina del libro Il treno dei bambini su mattonelle rosse.

La storia è narrata da Amerigo Speranza, di quasi otto anni, la cui madre si convince a partecipare all’operazione del Partito Comunista e che viene mandato a Modena. La prima parte è dedicata alla vita a Napoli, prima della partenza, la seconda alla permanenza al nord, la terza raccolta del ritorno a casa… Ma quale casa?

Questo è il tema portante che si dipana in tutto il romanzo, fino all’ultima parte, in cui Amerigo è ormai adulto e si trova di nuovo a Napoli e di nuovo comprende di essere separato tra due famiglie, due realtà, due vite: quella che ha scelto e quella che ha sacrificato.

Colpisce l’innocenza e il candore mantenuto sempre dal bambino Amerigo, che racconta ogni evento, dialogo, lite, paura, screzio, felicità, sempre e solo come un bambino. Un bambino, però, costretto a crescere e a compiere delle scelte, che paiono senza possibilità di ritorno.

La storia ha sempre una doppia faccia: il Partito Comunista, che pure ha organizzato un’operazione misericordiosa, solidale, di importante impatto sociale, non è unito, non è a favore delle donne e della loro emancipazione, come ci aspetteremmo, non è neppure così solidale:

Torino, Einaudi Editore, 2019, p. 200.

“Era bello perché tenevo vent’anni e perché ero innamorata dell’idea. Ma c’erano anche le cose brutte. (…) tu queste cose le hai conosciute, sei stato aiutato, hai studiato, sei diventato un musicista stimato, hai avuto delle possibilità, sei un uomo perbene e lo capisci che vale sempre la pena provare, anche se con delle approssimazioni, con delle inesattezze. Tutto quello che si può fare, si deve fare.

E la stessa azione che intraprende per aiutare è un’arma a doppio taglio: è solidarietà? È accoglienza? È carità? La mamma di Amerigo, Antonietta, la reputa un’elemosina e con sdegno orgoglioso la rigetta; per il bambino è un’opportunità, ma ha un lato amaro, un retrogusto impossibile da eliminare.

p. 201

“Da un lato c’era mia madre e dall’altro tutto quello che desideravo: una famiglia, una casa, una cameretta solo per me, cibo caldo, il violino. Un uomo disposto a darmi il suo cognome. Sono stato aiutato, è vero, ma ho provato anche tanta vergogna. L’accoglienza, la solidarietà, come dici tu, ha anche un sapore amaro, per entrambe le parti, per quelli che la dànno e per quelli che la ricevono. Per questo è così difficile. Io sognavo di essere come gli altri. Volevo che dimenticassero da dove ero venuto e per quale motivo. Ho avuto molto, ma il prezzo l’ho pagato per intero, ho rinunciato a tanto.

Alcuni di quei bambini che salirono a nord rimasero lì, con le nuove famiglie, altri tornarono e si costruirono una vita diversa nella loro terra d’origine anche grazie all’aiuto dei genitori settentrionali, altri ancora ripiombarono nella vita di prima, senza scampo. Così, forse, sarebbe toccato ad Amerigo se non avesse scelto altrimenti. A quale prezzo? Questo alla fine si domanda il protagonista, che nelle ultime pagine abbandona il candore dell’infanzia e la tristezza che traspare dalle sue parole è forse ancora più forte perché il lettore si era abituato all’ovatta dello sguardo del bambino. Chi è diventato? Cosa ha dovuto sacrificare per costruire la vita che voleva? Quanto? E chi?


p. 188

“La mela la lasciai avvizzire sulla mia scrivania, nella casa di Derna. Non volevo mangiarla per tenere vivo il tuo ricordo, poi un giorno non la trovai più. E’ successo di nuovo: ho lasciato che il tempo passasse e adesso è tardi.

p. 228

“Ho sprecato tanta rabbia che alla fine ne ho dimenticato il motivo.”
Fronte e retro della copertina del libro, appoggiato su una staccionata scura e dietro alberi.

Un libro toccante e profondo: ci costringe a riflettere sul passato (della nostra storia italiana) e sulla vita di ognuno di noi, sulle scelte, sugli aut-aut che ciascuno si trova a compiere, irrimediabilmente. A mio parere c’è un sottofondo profondamente filosofico nel romanzo: domande esistenziali a cui non si riesce davvero a dare una risposta. Leggendo ho pensato spesso a Kierkegaard e alla sua idea dell’inconciliabilità delle scelte, alternative che non possono fondersi (et-et) e trovare una sintesi dialettica, in maniera tipicamente hegeliana. Tuttavia, nel romanzo, si rimane sospesi tra due tipi di vita, non vi è la terza strada, quella che il filosofo aveva trovato con la fede in Dio. E, infatti, forse non a caso, Dio è sempre assente nel romanzo. Amerigo deve scegliere: sua madre oppure tutto ciò che ha sempre voluto, la prospettiva di un futuro diverso. Qualsiasi decisione prenda è una rinuncia, è un passo che lo renderà comunque incompleto: potrà realizzare le proprie aspirazioni, divenire un musicista, ma non sarà mai sufficiente, non potrà più essere un solo, unito, unitario se stesso.

Un tema ritorna spesso nel corso di tutto il romanzo: scarpe che non calzano per bene ai piedi di Amerigo. Sono troppo vecchie, troppo rotte o sciupate all’inizio; sono troppo strette quando parte verso il nord; sono scomode quando torna a Napoli da adulto. Solo alla fine chiede ad un ciabattino di aggiustarle e il ciabattino avrebbe potuto essere lui, se non avesse scelto di fare il musicista, se fosse andato a bottega come la mamma Antonietta avrebbe voluto: così le scarpe prendono la forma del piede di Amerigo, il cui sollievo non è solo fisico. Dopo tanti anni, cercando di scappare, tenta adesso di trovare una misura per tenere insieme i suoi due mondi.

Allo stesso modo, nel finale, dove tutto potrebbe ricomporsi e riunirsi in un cerchio, trovandone la quadratura in uno scambio di solidarietà, il protagonista cerca un significato, ne attribuisce uno, trova una strada di compromesso tra due mondi, due vite, due famiglie. Non è un finale davvero felice, ma una sua approssimazione, non tutto torna, ma è la vita e, forse, nonostante tutto, va bene così.


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