Riflessioni sul romanzo di Cesare Pavese
Ho sempre pensato che la prima cosa che avrei letto di Pavese sarebbe stato Il mestiere di vivere: non so esattamente cosa abbia reso così radicata questa mia convinzione; forse un’affinità che ho sentito fin da subito verso alcune riflessioni, inserite tra gli estratti durante le lezioni scolastiche o i vari corsi di lettere all’università. Invece mi è capitato tra le mani La luna e i falò e ho deciso che era inutile aspettare oltre: Pavese lo avrei cominciato dal suo ultimo romanzo, considerato, tra l’altro, da molti il più bello.
Non avendo metri di paragone, non posso certo sbilanciarmi in tal senso. Tuttavia posso dire senza ombra di dubbio che è un romanzo appassionante, che mi è piaciuto e mi ha spinto a riflettere. I miei pensieri sono stati guidati non solo dai numerosi temi che emergono dalle pagine, ma anche (e forse soprattutto) dal fatto che non riuscissi a capire dove voleva andare a parare. Il protagonista, Anguilla, torna nelle terre della propria infanzia dopo aver fatto fortuna in America… perché? Cosa cerca? Cosa vuole trovare? Cosa avrà alla fine? Non sono interrogativi a cui viene data davvero una risposta. Il lettore si trova piuttosto a vagare negli avvenimenti, avvolto e assorbito da una dimensione storica e culturale così realistica e lucida da scorrere di fronte agli occhi.
Si tratta di un libro duro, sotto molti punti di vista. In primo luogo per la descrizione degli abitanti delle campagne, per gli agricoltori, gli orfani, i poveri e gli umiliati, le donne schiacciate da uomini violenti e da storie sanguinose. Viene disegnata un’umanità legata alla natura, che detta le regole dell’agricoltura e della pastorizia, che getta le fondamenta di un legame indissolubile con i suoi abitanti. Mi domando se il riscatto, quello del protagonista, sia un vero riscatto: dopo tutto è tornato alle proprie origini… Certo, non appartiene più a quei luoghi, ma è davvero libero? Sembra sempre trascinato indietro dalle memorie, dal vecchio amico Nuto, dal ragazzino storpio che in qualche modo gli ricorda se stesso. Qualcosa di profondamente sanguigno lo tiene attaccato alla terra, a quei luoghi che lo hanno richiamato indietro.
La figura che più mi ha colpita è quella di Nuto: le sue idee di sinistra non si fermano all’ideologia ma portano ad una riflessione più profonda, più amara e universale.
Per non parlare della guerra, di quella che è stata una vera e propria guerra civile: tra partigiani e fascisti. Anche qui distinguere una parte giusta e una sbagliata appare meno semplice di come i libri di storia vorrebbero farci credere. I morti da entrambe le parti sono stati i mariti, i padri, gli amici e gli amanti di coloro che li ricordano e per questi certamente non è così importante sapere chi avesse ragione.
Una natura potente e un’umanità divisa vengono dipinte nel romanzo, senza scampo.
Capii che Nuto aveva davvero ragione quando diceva che vivere in un buco o in un palazzo è lo stesso, che il sangue è rosso dappertutto, e tutti vogliono essere ricchi, innamorati, far fortuna.
p. 154.
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