Libri Romanzi

UN BOSCO PER RITROVARE SE STESSI

La donna degli alberi di Lorenzo Marone

“Consigliami qualcosa da leggere veloce che a Natale mi regaleranno altri libri e non voglio accumularne troppi!” Così ho detto ad Alessandra, la mia solita libraia di fiducia, e lei deve aver pensato che non fossi proprio una persona profonda. D’altro canto, però, era la verità: sono stata molto schietta nell’esprimere la mia esigenza di un romanzo che si leggesse tutto d’un fiato, così da potermi godere i doni che sapevo mi sarebbero arrivati entro la fine dell’anno. Questo è uno dei tanti motivi per cui preferisco la piccola libreria fiorentina “Leggermente” rispetto alle grandi catene e al (per me) orripilante acquisto online: mi consigliano sempre bene, trovano quei libri che mai altrimenti avrei letto. Oppure, volendo ribaltare la prospettiva, grazie a questi negozi di quartiere, i romanzi che ci sono destinati, che ci cercano perché sono lo specchio della nostra vita, riescono a trovarci più facilmente, senza lottare contro gli algoritmi del digitale e l’ansia delle pubblicità accattivanti. Mi è bastato leggere le prime tre righe sul retro di copertina e “La donna degli alberi” mi aveva già conquistata: non avevo bisogno di ulteriori suggerimenti.

Copertina del libro La donna degli alberi con accanto una candela un po' consumata ricavata in una tazza da caffè con piattino.
Paesaggio di montagna: boschi, prati e nuvole.

Un romanzo letto in due settimane, centellinando alla fine le pagine perché è uno di quei libri che dispiace concludere. È una storia capitata al momento giusto perché, a causa dell’emergenza Covid, quest’anno io e Lorenzo abbiamo dovuto rinunciare al nostro solito viaggio in Trentino: così il libro ha portato da me la montagna, il bosco, la natura e quell’atmosfera di sacralità e di pace.

La protagonista e narratrice ha lasciato la città e all’inizio dell’autunno si è trasferita nella baita alpina dove era solita trascorrere i mesi estivi con i genitori. Avrà circa sessant’anni, o almeno io me la immagino così, e si porta dentro il peso di una vita incompleta. La storia si sviluppa come le pagine di un diario (sono indicati i mesi, ma non i giorni): nessun dialogo diretto, ma solo la descrizione degli incontri, delle vicissitudini e delle persone, soprattutto della natura, che è controcanto costante della donna. Molte sono le riflessioni sulla vita, pensieri esistenziali e lotte interiori: gli animali rispondono, gli alberi chiamano, insegnano, sono lo specchio della vita della protagonista. È una natura benigna e maligna al tempo stesso, forse perché semplicemente non si cura degli uomini. Tuttavia, il rispetto verso tutti i viventi aleggia in ogni pagina, è ricordo costante, è un mantra che detta le regole di questo modo di vivere. Isolata nella baita, circondata dai boschi e dagli animali selvatici, la donna impara a riconoscere se stessa, scopre la magia, la dolcezza e la crudeltà dell’alta montagna. Alcuni personaggi popolano il racconto: ciascuno con le proprie caratteristiche peculiari, con una storia che si incastra con quel luogo.

L’inizio, le primissime pagine, sono per me di una bellezza unica: un inno alla vita, a ciò che è veramente importante, contro la futilità di ciò di cui ci circondiamo e l’ipocrisia che purtroppo spesso domina le nostre scelte quotidiane. È un vero e proprio manifesto: il riassunto di ciò che la protagonista ha imparato in un anno di vita sulla montagna.

“Lascio il mondo dei vincenti, di quelli che si sentono tali, il frastuono dei loro bolidi, la televisione dell’apparire, le cartacce per terra, l’auto davanti alla discesa dei disabili, il menefreghismo diffuso (…) l’indifferenza verso il mondo animale, la paura di ciò che non si conosce (…) Mi lascio dietro le mie aspettative asfissianti, la troppa informazione che cela la verità e fa schiavi (…) lo spreco dell’abbondanza, (…) il lamento degli oziosi, l’abbuffata degli ingordi, lo sfruttamento dei potenti (…) Imparo a stare, senza rimpianti, senza voler essere continuamente altrove.” (pp. 13-15)

Paesaggio di montagna: boschi, prati e nuvole, in primo piano le foglie arancioni di un rampicante.
Copertina del libro La donna degli alberi con accanto una candela un po' consumata ricavata in una tazza da caffè con piattino e un fermalibro argento con un fiore.

Il tono de La donna degli alberi è spesso fiabesco (ad esempio nell’ambientazione e in alcune atmosfere, nei personaggi senza nome proprio ma individuati solo da soprannomi), ma è anche realistico; è crudo e poetico, delicato e pungente; le parole ti strappano dal cuore paure e speranze, ricordando il miele e l’amaro, la bellezza della vita.

La natura è specchio di pensieri e sentimenti; ci insegna un modo nuovo di guardare alla vita e alle nostre esistenze… Gli alberi stessi ci rappresentano, raccontano qualcosa di noi, in una serie di parallelismi che si sviluppano in tutto il romanzo:

“Ogni anello è un anno di vita della pianta, racconta come questa ha vissuto, quali eventi ha dovuto superare. (…) Gli anni lasciano tracce anche dentro di noi. Il primo fiato che ci dà forma e sostanza è nascosto sotto spessi strati di vita, che col tempo induriscono e si fanno corteccia, per proteggerci. Quello che siamo oggi, e che mostriamo, è sol l’ultimo dei nostri cerchi, che come gli altri passati sta tra le tempeste, e resiste.
Fin quando riesce.
(…) Il troppo vissuto rende fragili, ti scava dentro, come al povero faggio, l’albero secolare che dava forza a chi lo guardava, e invece forse all’interno era già cavo perché in una notte tempestosa qualche decennio prima un fulmine lo aveva colpito facendolo debole. Ma deboli a questo mondo non si può essere, così sono arrivati i funghi, le spore, i batteri, e hanno preso a mangiarsi il tronco dall’interno (…)
La vita prima o poi colpisce e lascia un buco nel cuore. E da lì si infilano i nemici.” (pp. 21-22)

La protagonista è spesso sola, isolata nella foresta: non rifugge la compagnia degli altri, ma è un’anima che vuole stare con se stessa. La domina una lotta perenne, un’inquietudine fatta di dolori passati di cui non sa (e non vuole) liberarsi. Col passare dei mesi impara l’arte di aspettare, di coltivare il presente, di pensare al futuro con slancio altruistico.

p. 31

L’attesa costringe all’ascolto, è vuoto non riempito, osservazione e silenzio, preparazione. E’ fatica.

Seppur nelle sue spietate riflessioni (“ho pensato che non sono mai nata come madre, a nessuno ho dovuto dare amore non meritato”, p. 43), le considerazioni della donna mi hanno trovata spesso concorde; comprendo e condivido i suoi pensieri sulla felicità come lotta e conquista:

p. 55
Cercavo di convincermi che la mia felicità non è uno scopo comune, solo una piccola cosa che riguarda me, e me soltanto, e che sentirsi parte del tutto è un buon modo di venire a patti con l’esistenza.

p. 101
Ho capito che la sua felicità, come la mia, è fatta di sapori, odori, suoni, la sua felicità, come la mia, è costruzione quotidiana, fatica.

… la convinzione che l’insensatezza dell’esistenza si riscatti nel valore che sappiamo darle:

p. 172
Chiunque può arrendersi, utilizzare l’esistenza per uno scopo aiuta invece a patteggiare con la consapevolezza della propria insignificanza nel tutto.

p. 89
Per ricordarmi che non siamo niente. E aiutarmi così a dare più valore a tutto.

Paesaggio di montagna: boschi, prati e nuvole.
Paesaggio di montagna innevato: abeti carichi di neve e un ruscello che scorre.

Allora, contro un mondo caotico che ci spinge alla corsa, alla competizione e all’individualismo, il lettore è costretto a fermarsi, a godere dell’attesa e dell’immensità imperscrutabile e saggia dell’aspra montagna, comprendendo come tutto sia collegato, e come la nostra felicità dipenda da questo.

“(…) mi sono ritrovata a riflettere sul mondo distratto che ho lasciato a valle (…) Siamo sempre in più cose contemporaneamente, deviati dal compito che ci spetta, incapaci di tenere il mondo fuori. (…) La distrazione ruba lo sguardo, rende incapaci, insensibili agli impercettibili mutamenti che non ci riguardano da vicino. La distrazione ci fa egoisti. La pace delle montagne invece mi spinge in senso contrario, stimola in me la voglia di comprendere a fondo, minuziosamente ciò che mi ricorda.” (p. 36)

“(…) camminavo da sola pensando che il dolore non mi aveva addomesticato, conservavo intatta la caparbietà del fiore che cresce nella crepa del cemento. (…) Non siamo mai soli al mondo, lo diventiamo se smettiamo di ascoltare e ci asserviamo alla fretta, il vizio capitale del nostro tempo, se ci lasciamo sedurre dalla facile idea che la felicità sia da ricercare, non qualcosa a cui prestare attenzione.” (pp. 120-121)

Difficile dare un’unica definizione a questo libro: è un diario, è una lunga descrizione del fascino della natura, è un saggio di riflessioni sull’esistenza, è un romanzo di formazione. È la vita, insomma, è la lotta per conoscere se stessi e per tornare a casa, sentire di appartenere ad un luogo, a qualcuno, a se stessi.



IL LIBRO
> Lorenzo Marone, La donna degli alberi, Feltrinelli Editore, Milano, 2020.




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