Un salto nell’Italia del passato
Lettura di maggio 2022: un regalo di Pasqua di mia mamma, che ha acquistato questo libro, una bella e solida edizione Vallecchi, con tanto di timbro da parte della Società Italiana degli Autori ed Editori, dopo aver fatto qualche ricerca sull’autrice… A quanto pare, infatti, era piuttosto scettica che questo romanzo potesse piacermi e, in effetti, io stessa sono incerta. Dopo averlo finito, infatti, avevo sentimenti conflittuali su di esso e, ora che sono passate alcune settimane, ne ho un’idea come di un libro polveroso e grigiastro, probabilmente per le atmosfere che evoca e che rimangono impresse al lettore.
Partiamo dall’edizione, che merita senza dubbio una certa attenzione: comprata alla libreria Mucho Mojo, è ben rappresentativa, secondo me, del contenuto di queste pagine. Ha, infatti, un aspetto austero e piuttosto rigido, con fogli spessi, caratteri chiari e una copertina con una litografia di Joan Mirò, molto spartana, sebbene colorata. Mi colpisce anche un segno del trascorrere del tempo: l’etichetta sopravvissuta e strenuamente ancora attaccata con il prezzo: lire 1.500, impensabile adesso.
Lo stile di Anna Maria Ortese è senza alcun dubbio particolare; nonostante sia privo di grandi orpelli, con un lessico semplice e quotidiano, non è sempre semplice da comprendere, anzi, occorre evitare di distrarsi. Richiede, infatti, una certa attenzione, soprattutto perché la narrazione procede in modo apparentemente lineare, ma è ricca di omissioni. La protagonista e narratrice racconta il proprio passato, ma, invece di aiutare il lettore con la conoscenza acquisita, mescola le carte, distorce avvenimenti ed emozioni, omette dettagli dandoli per scontati e fa vaghe allusioni al futuro senza fornire spiegazioni.
Complica ulteriormente la comprensione lineare degli eventi il fatto che la lente distorcente attraverso cui il lettore li guarda svolgersi ha un’altra crepa: l’ideologia. La fede socialista e la quasi religiosa necessità di vivere secondo i suoi dettami, infatti, falsano le reali sensazioni, i sentimenti autentici, i pensieri sul mondo e persino le relazioni umane. La semplicità e la povertà sono ricercate e quasi nobilitate, eppure, a ben guardare, il bisogno di denaro è asfissiante, la sua ripartizione in egual misura tra tutti è ingiusta e la volontà di diventare famosi, importanti, lusinga i personaggi. Davvero sono semplici? I loro sentimenti paiono molto più intricati della bontà e dell’amicizia che si professano a vicenda, i cuori vagano e hanno passati dolorosi, i ricordi generano caratteri complessi e sbalzi d’umore repentini. Riflettendoci, c’è una semplicità che si stende come un velo su ogni gesto… ma forse si tratta più di ingenuità e di fiducia incondizionata.
E mi dolsi di questo essere umani, di dover vivere recando così spesso involontario dolore, e decisi che il rimedio era non dare poi alla propria vita molta importanza, ma metterla a servizio degli uomini.
p. 162
Mi è rimasta impressa in particolare la cecità che da una parte aiuta a vivere, rende sopportabile la miseria, conferisce un senso ai patimenti ed eleva il dolore, ma dall’altra fa del male, logora, distrae, impedisce di comprendere e di cercare (e persino di pretendere) la felicità propria, un posto nel mondo solo per noi. Così vive Bettina, la protagonista, per tutto il romanzo e mi genera una rabbia impotente: lei, il suo talento, il suo amore, la malinconia infinita… non vede chi è davvero, non riconosce il proprio valore. Eppure, pare così evidente che questo romanzo corale sia invece la voce unica di una protagonista che si eleva al di sopra degli altri, sebbene Gilliat sia un uomo meraviglioso e anche gli amici dispongano di buone qualità.
In conclusione, questo libro che la narratrice si sforza tanto di attribuire ad un “noi”, a un coro di voci, non può davvero essere corale: lo vorrebbe l’ideale del socialismo, ma chi racconta lo fa in prima persona, dice “io”.
In fondo, ponderando le impressioni durante la lettura e ciò che in seguito mi ha lasciato, si tratta di un bel libro, con persino una storia d’amore piuttosto inaspettata. Tuttavia, si colloca in un passato che adesso possiamo solo intuire, provare a comprendere, respirare attraverso le pagine, ma non riusciamo a sentirlo. Anche i tradimenti dell’ideologia, l’esempio offerto dall’URSS, le lotte interne nel Partito sono patimenti focosi, di importanza storica, ma da noi lontani. Questo romanzo ci offre una finestra, uno spioncino particolare, attraverso cui guardare un’epoca che non ci appartiene più.
«Quella che viviamo non è vera realtà, credi. È come una notte che deve finire.» (…) «Io, al giorno non credo (…) Ecco la verità: non credo. Io credo al crepuscolo.»
pp. 88-89
SINOSSI
Ambientato a Milano nei primi anni Cinquanta, il romanzo racconta la storia di un gruppo di amici, tra cui la narratrice, Bettina. La trama si svolge tra difficoltà finanziarie, nuovi legami, riconoscimenti letterari…
Vincitore del Premio Strega del 1967, Poveri e semplici è un classico della letteratura italiana, sebbene ormai quasi dimenticato. La narratrice è in parte trasposizione della stessa scrittrice, che nel 1953 ritirò il Premio Viareggio per il libro Il mare non bagna Napoli e che non smise mai di aderire ad un ideale di uguaglianza e fratellanza degli uomini, ispirato al socialismo.
L’AUTRICE
Anna Maria Ortese (1914-1998) esordì con i racconti Angelici dolori (1937) e L’infanta sepolta (1950). Vinse il Premio Viareggio nel 1953 con Il mare non bagna Napoli. Pubblicò numerosi libri, tra cui Il cardillo addolorato (1993) e Alonso e i visionari (1996) che riscossero un certo successo e nel 1996 uscì una sua raccolta di poesie, Il mio paese è la notte.
IL LIBRO
Anna Maria Ortese, Poveri e semplici, Vallecchi Editore Firenze, Firenze, 1967.
> https://www.anobii.com/en/books/poveri-e-semplici/01a31f3ea0438ece76
LEGGI ANCHE …