Riflessioni sull’autobiografia Fame di Roxane Gay
Potrei cominciare a scrivere di quanto la società sia ingiusta, di quanto i nostri modelli di corpi (e di tanto altro) siano irreali e frustranti, degli standard altissimi ai quali aspiriamo guardando le foto ritoccate di modelle con un vitino di vespa e una terza di seno, spiaggiate in un lido caraibico, circondate da palme e noci di cocco. Quelle gigantografie alte due metri ti colpiscono impietose mentre sei in fila al semaforo sui viali e la lampante assenza di smagliature, di cellulite e persino a volte di nei ci induce a fissarci con disapprovazione allo specchio, appena arrivate a casa, a misurare con lo sguardo quanto abbiamo sgarrato rispetto al nostro ideale. Ecco, vedete? E’ stato fin troppo semplice farmi prendere la mano. Certo, la società non ci aiuta, ma il nemico siamo noi. Noi che pensiamo di non essere abbastanza, di non meritare quanto di bello potrebbe capitarci.
Fame è una biografia sul corpo di una donna obesa, vittima di uno stupro di cui non è riuscita a parlare per anni, una ragazza che ha cominciato a mangiare per diventare invisibile, per rendere il proprio corpo una fortezza inespugnabile. Ma è anche (e secondo me soprattutto) un libro sull’accettazione di sé, che pure l’autrice non ha del tutto raggiunto; ed è questo il bello: credere che un giorno ci sveglieremo e ci sentiremo a nostro agio con il nostro fisico è per la maggioranza di noi un’utopia. Non accadrà. L’accettazione è una lotta; pensare che meritiamo di stare con qualcuno che ci ama e ci rispetta anche se abbiamo la cellulite è una sfida, credere che possiamo ottenere un lavoro migliore sebbene abbiamo preso due chili nelle ultime vacanze di Natale è molto più arduo di ottenere una promozione. Una bella casa, il calore di una famiglia, la solidità di una cerchia di amici: ci meritiamo tutto. Eppure… Parlo del corpo perché su questo si focalizza la riflessione di Roxane Gay, ma sono discorsi che potremmo applicare a qualsiasi aspetto ci riguardi (intelligenza, simpatia, cultura): non siamo mai abbastanza. E parlo di donne perché sono una donna, ma ho la certezza che per gli uomini spesso i timori siano uguali.
Ho sempre avuto paura di non essere forte. Le persone forti non si trovano nelle situazioni di vulnerabilità in cui mi sono ritrovata io. Le persone forti non fanno gli errori che faccio io. Queste sono alcune delle assurdità che mi sono inventata negli anni, idee che saprei demolire benissimo se non fossero le mie.
p. 249
Siamo così certi di non meritarci qualcosa ed è terribilmente difficile convincerci del contrario. Solo noi possiamo farlo: questa è la trappola. Fame è un libro che fa riflettere; mi è piaciuto perché ho sentito che mi riguardava, parlava di me perché ho avuto (e ho ancora) problemi con il mio corpo, ma soprattutto perché sono donna. O più in generale un essere umano.
Quando ho sfiorato l’anoressia l’ho fatto in primo luogo aderendo all’ideale di qualcun altro, qualcuno che mi preparava la lista degli esercizi da fare la mattina e la sera, che mi diceva che sarei dovuta andare a correre, iscrivermi in palestra. Ma la persona con cui stavo non era responsabile della perdita progressiva e inesorabile del mio peso, del fatto che trovassi rassicurante sfiorare con le dita le ossa che emergevano con sempre maggiore evidenza da sotto la pelle. Sono stata io. Io ho scelto più o meno consapevolmente qualcuno a cui non andava bene il mio corpo, io ho aderito al suo modello di donna perché non ero abbastanza forte da affermare il mio. E poi, quando inevitabilmente mi ha lasciata, ho continuato a dimagrire per scomparire, perché non volevo più quel poco seno che avevo, perché non desideravo più essere donna, sentivo di non meritare di essere guardata e desiderata. Più di una volta, davanti allo specchio, mi sono detta che non potevo essere bella, ma almeno potevo essere magra. Non mi sono amata abbastanza. In tutta la vita non mi sono mai amata abbastanza e so per certo che la maggioranza delle persone ha la medesima difficoltà, anche se non sfiora l’anoressia e non ha problemi patologici con il cibo o con il proprio corpo. In ogni caso non si accetta, non crede di meritare davvero tutta la gioia e la bellezza della vita. Abbiamo paura di essere felici, preferiamo lamentarci perché siamo pigri, perché amarsi è una fatica immane. Mi sento molto vicina a quanto dice Roxane: “Non me la cavo molto bene con la paura. Cerco di respingere chi amo. Temo che non mi sia concessa nessuna debolezza umana, che manifestarne qualcuna mi renda peggiore” (p. 247). Non accetto le mie debolezze, arrendersi che esse facciano parte di me sarebbe una grande vittoria, sarebbe lo strumento per combatterle o per conviverci, sarebbe persino un modo per impedirmi di fare del male agli altri nel vano tentativo di nasconderle.
Ho creduto per anni che criticando me stessa sarei divenuta migliore. Non ha funzionato. Adesso ritengo che sia l’amore a far emergere la parte migliore di noi; dobbiamo amarci per riuscire ad amare gli altri e dobbiamo permettere loro di fare altrettanto. Dobbiamo ammettere che desideriamo e che ciò che vogliamo ce lo meritiamo, indipendentemente da quanto pesiamo, dalla nostra taglia di reggiseno, dal colore dei nostri capelli, dalla perfezione dello smalto delle nostre unghie.
La finzione narrativa parla di desiderio, in un modo o nell’altro. Più invecchio, più capisco che la vita di solito è il perseguimento dei propri desideri. Vogliamo e vogliamo e oh, quanto vogliamo. Abbiamo fame.
p. 214
Dobbiamo avere fame.
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