Non amo le piante o i fiori. O meglio, non amo coltivarli, prendermene cura, cambiare loro di vaso o preoccuparmi di annaffiarli regolarmente. Adoro la natura con le splendide sfumature, il profumo di erba fresca, la sensazione di essere libera che mi pervade quando percorro un sentiero ombreggiato. Eppure, presi singolarmente, piante e alberi non esercitano su di me un grande fascino, specialmente se sono io a dovermene occupare. Credo sia perché ho un segreto timore, che pervade il mio inconscio ogni volta che vedo una pianta sul mio terrazzo: penso a quando sfiorirà, quando le foglie ingialliranno e cadranno, cosa potrebbe accadere se si seccasse, un bruco invadesse i suoi steli, divorandone le interiora. Non sopporto di vedere i petali staccarsi, il piccolo cimitero privato degli scarti di un essere comunque vivente. Conosco altre persone con il medesimo problema, la stessa piccola idiosincrasia; a molte di loro lo sfiorire ricorda la morte. Onestamente a me no, così come sono immune da certi pensieri sullo scorrere del tempo. Sospetto si tratti del fatto che ogni volta che vedo un fiore appassire mi torna in mente il pensiero che niente può essere davvero perfetto. Non penso la perfezione esista in un istante e poi scompaia il successivo; ritengo piuttosto che l’essere destinato a scomparire condanni persino quella bellezza ad essere imperfetta. Forse dovrei pensare piuttosto che proprio quel deteriorarsi rende tutto ancora più perfetto, ma mi sentirei un’ipocrita o una buonista; e purtroppo mi vanto spesso di non esserlo.
Ho scattato una foto, mentre ero in visita al borgo delle camelie e riuscivo a godermi quelle macchie di fiori colorati, tutti della stessa specie, tutti diversi per forma e per colore. Ne ho scattate molte, in verità, ma una in particolare mi ha colpita. Attraversavo un groviglio di rami di enormi camelie, alcune addirittura secolari, quando ho notato il tappeto su cui stavo camminando: un miscuglio di erba, terra, foglie secche o marce, altre ancora verdi, e petali. Tanti petali, frutti di fiori sfaldati, disfatti, sfracellatisi nella caduta o dispersi dal vento, dai passi di chi mi aveva preceduta. Eppure ce n’era uno intonso: una camelia che era eroicamente sopravvissuta, adagiata con la sua splendida corolla rivolta verso il cielo, verso le sue compagne ancora attaccate alla pianta. Le guardava come un occhio aperto sul terreno, sventolava solo i petali ancora perfetti in segno di saluto. Era destinata alla morte, allo sfacelo che le sue compagne avevano già abbracciato. Eppure. Quella camelia inondava di nuova bellezza ciò che la circondava, le foglie sporche di terra e i corpi smembrati dei fiori già caduti; dettava l’armonia dell’insieme, metteva apposto ogni particolare. Come un sole, costringeva il caos a girare intorno, a darsi ordine, a creare un nuovo cosmo.
Dobbiamo vedere quel fiore per non essere inghiottiti dalla caducità di tutto, dobbiamo trovare il punto intorno a cui ogni cosa può gravitare. Quello è l’appiglio. Ci salverà? Forse, per un breve istante, per un secondo il tutto avrà senso, rimanendo imperfetto. Calvino diceva che in mezzo all’inferno occorre trovare ciò che inferno non è, e farlo durare, e dargli spazio.
Nella vita troviamo quella camelia ogni giorno e ogni notte la smarriamo, ogni battito di ciglia rischia di farcela perdere di vista. Bisogna concentrarci, avere fiducia, credere ingenuamente che quando riapriremo gli occhi il centro dell’armonia sarà ancora lì, o che ve ne saranno addirittura due o più o ne sarà comparso uno nuovo. In ogni caso, anche qualora il caos trionfasse, potremmo sbattere le palpebre per dissipare la nebbia. Se siamo fortunati potremmo persino trovare qualcuno, accanto a noi, che se ci perdiamo, è pronto ad indicarci la camelia più vicina.
L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.
Italo Calvino, Le città invisibili, Einaudi, Torino, 1972.
Vuoi saperne di più sulla mia gita al borgo delle camelie? Leggi il mio articolo sulle Antiche Camelie della Lucchesia!