parte II

Prima di cominciare… hai letto la parte I?
“Rachele, non è vero! Non è quello che intendevo…” La donna rimase imperturbabile. “Voglio stare con te, voglio che ci proviamo. Anche se siamo lontani, io ti aspetto. Ho anche annaffiato le piante!” Paolo abbozzò un sorriso, ma l’espressione di lei era impassibile. “Te lo giuro, amore mio: ce la faremo. Io ci credo, voglio crederci.” Paolo si accalorò, avvicinandosi alla telecamera, come fosse davvero potuto entrare dentro lo schermo e abbracciare quella donna che gli stava fuggendo e che forse aveva perduto già mesi prima, quando l’aveva lasciata andare, tra il traffico e i bagagli di un aeroporto.
“Non sarà facile e io mi sono comportato in modo pessimo in queste ultime settimane, ma sono… spaventato. E’ così difficile ammetterlo! Se fossi lì, con te, potrei dimostrarti quanto ci tengo, quanto tu sia importante per me… Ma così, così è tutto complicato! E’ tutto sbagliato.” Gli occhi di Rachele si riempirono di lacrime e Paolo vide una speranza, una possibilità di non disperdere quell’ultimo refolo di fumo che era rimasto del loro amore.

“Ti amo, Rachele, e non posso prometterti che sarà così tra dieci o vent’anni, ma so che lo sarà domani e dopodomani, finché non tornerai. Non manca molto! Mi impegnerò… troverò un modo. Davvero.” Il volto di Paolo occupava quasi tutto lo schermo, gli occhi lucidi, impauriti e speranzosi, in attesa, i denti serrati: avrebbe voluto dire tanto e invece gli salivano alla mente solo frasi fatte, mediocri e banali, frasi di circostanza che anni e anni di improprio utilizzo avevano usurato. Rachele distese le labbra.
“Non hai annaffiato le piante.” E chiuse la comunicazione. Paolo rimase più stupefatto che addolorato: chi se ne importava delle piante, no? Non aveva capito niente di quello che le aveva detto? Non si era accorta di quanto fosse accorato il suo discorso? Rachele ora si era disconnessa: fine di ogni comunicazione.
Paolo si alzò di scatto dal divano e si lanciò sul tavolino in vetro che troneggiava nel sole del primo pomeriggio, afferrò il cellulare e iniziò a digitare freneticamente il numero di Rachele. Perché aveva reagito così? Erano mesi che aspettava una qualche dichiarazione di questo tipo, Paolo lo aveva ben intuito, forse erano addirittura anni che avrebbe desiderato udire quelle parole: perché ora fingeva che nulla fosse accaduto? Lui si era prostrato, umiliato, le aveva giurato che l’avrebbe aspettata, che si sarebbe impegnato, che addirittura l’amava, e lei non aveva risposto niente! Non si era neppure degnata di prendere in considerazione quelle parole! Perché? Cosa poteva desiderare di più, cosa aveva atteso e chiesto silenziosamente tutto quel tempo?

Mentre Paolo stava per schiacciare il tasto di chiamata, il suo sguardo cadde sulla piccola felce sopra la cassapanca, accanto al tavolino: gialla, secca, circondata da un tappeto di foglioline, come lacrime sparse, briciole disperse e rassegnate. Il senso di colpa gli trafisse il petto: Rachele aveva ragione. Allora, in un lampo, comprese cosa davvero la donna gli stava dicendo. Erano menzogne, solo menzogne: non aveva annaffiato le piante, non l’amava, non l’avrebbe aspettata. Paolo ricadde sul divano e si chiese se non avesse ragione lei, se non fosse stata l’improvvista paura di perderla a modificare del tutto il suo comportamento, a fargli proclamare tali promesse. Aveva mentito perché sarebbe stata una bella realtà, se lui avesse annaffiato le piante in attesa del ritorno di Rachele, sarebbe stato poetico; ma anche il resto era una meravigliosa, poetica menzogna? Paolo sospirò. No, non era una bugia: l’amava davvero e davvero l’avrebbe attesa quegli ultimi mesi, forse sarebbe persino potuto andare da lei, se glielo avesse chiesto. Ebbe di nuovo l’impulso di chiamarla, ma si fermò con il telefono ancora in mano, le dita a pochi centimetri dalla tastiera.

In quel momento ebbe l’ultima delle sue rivelazioni: non gli avrebbe creduto. Avrebbe potuto giurare e spergiurare, ma niente sarebbe cambiato nella mente di Rachele. Per lei erano solo dolci bugie, identiche a quella di aver innaffiato le piante, correttivi ad una realtà troppo dura da accettare, palliativi per i malati terminali, in attesa della fine, consapevoli e incoscienti. Paolo seppe che nessuna parola avrebbe potuto correggere l’immagine che aveva dato di sé, pagando adesso il prezzo del suo carattere lunatico e altalenante, del relativismo esasperato e di tutte le storie e le bugie manifeste. Scontava la pena di non essere un sincero poeta, ma un modesto cantastorie, un piccolo romanziere fallito.
Quelli come lui inventano storie fantastiche, costruiscono personaggi realistici e creano dialoghi perfetti, abitano quelle realtà parallele, con cui aggiustano la propria, correggono le storture, distorcono le evidenze. Quelli come lui rischiano di annegare nelle proprie favole, sia in quelle belle sia in quelle terribili, e diventano vittime di incubi e sogni, imprigionati in verità parallele, tutte reali, tutte inventante. Chi si avvicina rischia di rimanere intrappolato nelle menzogne che raccontano, in quella vertiginosa varietà che sa essere il loro cuore: sono tutti e nessuno, sono sinceri e bugiardi, coraggiosi e vili, sempre vincenti, sempre sconfitti.
Rachele spense il computer, raccolse la borsa e uscì.