La traduzione di Pavese per uno degli ultimi grandi racconti di mare di Melville
È molto raro che io legga libri che mi vengono regalati in edizioni così gradevoli e che minacciano di sgretolarsi da un momento all’altro, ma ho fatto un’eccezione per due motivi: in primo luogo per la traduzione di Cesare Pavese, che amo come autore ed ero curiosa di leggere in altre vesti; secondo di poi perché si tratta di una storia di mare e, pur con sapendo nulla di navi, Conrad mi ha fatto scoprire che adoro questo genere così di nicchia… Forse è per questo che mia mamma ha deciso di regalarmi questo racconto, in un formato così diverso dagli altri, più largo, con la copertina celeste un po’ sporca e le pagine aranciate…
Si tratta di una seconda edizione, pubblicata da Einaudi nel 1942 e che riporta il volto pallido e barbuto di Melville in un piccolo rettangolo di carta ancora miracolosamente aggrappato ad una delle prime pagine. L’acquisto proviene dai libri usati della Mucho Mojo e mia mamma lo aveva confezionato insieme a Poveri e semplici come regalo di Pasqua.
Ho atteso un po’ di più a cimentarmi con questo racconto, che ho iniziato durante la noiosa giornata trascorsa come scrutatore al seggio, il 12 giugno 2022, e finito poco dopo…
Non avevo mai letto niente di Melville, anche se conosco di fama il suo romanzo più celebre, Moby Dick, del quale mi sono state forse somministrate delle pagine a scuola… Sinceramente non ricordo neppure i dettagli. Mi sono quindi approcciata alla lettura del Benito Cereno piuttosto digiuna sia dello stile del grande autore sia dei suoi contenuti abituali. Da una parte, meglio così.
Pubblicato per la prima volta nel 1855, Benito Cereno entrò a far parte dei Piazza Tales (1856) ed è considerato uno degli ultimi guizzi creativi di Melville. Dopo la sua opera maggiore, infatti, edita nel 1851 e praticamente ignorata dalla critica, il romanziere aveva perso la speranza di avere successo con la propria scrittura e la qualità delle sue ultime creazioni era calata notevolmente. Benito Cereno sembra, invece, essersi salvato da questo triste crepuscolo e Melville pare ritrovarvi la sua vena migliore. Sinceramente non mi è possibile fare un confronto, ma, da lettore completamente ingenuo, mi è parsa un’ottima storia di mare, ben riuscita sia nell’atmosfera sia nell’intreccio del racconto.
A quanto pare Melville aveva esperienza in materia, ma concentrata in un periodo breve della usa vita: egli solcò le acque per solo quattro anni e approdò definitivamente alla terraferma quando ne aveva solo ventisei. Eppure, il mare rimase nel suo immaginario e lo toccò così nel profondo da riverberarsi nelle sue opere più riuscite… L’oceano di cui leggiamo nel Benito Cereno non è semplicemente un ambiente, ma pervade ogni cosa, detta i tempi, gli umori, regole proprie, ed è infinito tesoriere di splendide metafore. Ne cito una che mi ha colpita fin da subito: la nave “fantasma” come un monastero tra la roccia.
Come nota giustamente Pavese nella sua breve introduzione, l’atmosfera e la storia costruite da Melville strizzano l’occhio ad alcuni episodi del Purgatorio dantesco: “la scalata, il dormiveglia, i crepuscoli primaverili e le visioni – simbolo, oltreché immagini, di un’opposta concezione delle cose: la possibile spiritualizzazione angelica” (p. IX).
Gli eventi del breve ma intenso racconto si condensano quasi tutti nell’arco di una giornata, sebbene le ultime pagine siano dedicate al racconto diretto del protagonista tramite la sua deposizione e al chiarimento retrospettivo di alcuni dettagli. Nonostante il narratore (in terza persona) sia chiaramente onnisciente (ce lo fa capire con alcune battute e riflessioni), decide di raccontare lo svolgersi delle vicende prendendo la prospettiva del buon Capitan Delano, esempio di pacatezza e buone maniere, pur non essendo molto accorto, ma di certo piuttosto fortunato.
All’alba il capitano americano avvista una nave che sembra in difficoltà e decide di accorrere in aiuto; salito a bordo, viene accolto da un contesto piuttosto strano, su un’imbarcazione che doveva trasportare schiavi neri, i quali adesso paiono collaborare liberi con i superstiti bianchi dell’equipaggio. Il capitano spagnolo, Benito Cereno, sempre scortato e sorretto dal suo fedele servitore, accoglie l’aiuto di Delano, ma il racconto che fa delle sciagure subite, insieme ad una serie di episodi e piccole incoerenze, pare piuttosto inverosimile… Qual è la verità? Cosa è successo davvero a quella povera, grande nave così malridotta? Che ruolo giocano i diversi personaggi che si aggirano sul ponte, tra le vele, in coperta?
Elemento cruciale che detta il ritmo esasperatamente lento è la bonaccia del mare: una quiete immobile che è lo specchio dei crescenti sospetti del Capitan Delano. Questa calma dell’oceano è spaventosa, senza scampo, crudele e perpetua: scandisce l’inesorabile trascorrere delle ore, la calma malata e tremula del capitano spagnolo, il racconto delle disgrazie della sua nave che ha subito il colpo di grazia proprio a causa delle bonacce. Persino l’onesta e bonaria semplicità dell’americano, che cerca la quiete del galateo e rifugge i sospetti, sono parte di questa calma piatta del mare. Infine, si leva un alito di vento e con esso scoppia la ferocia, improvvisa, a lungo repressa e finalmente sfogata.
Non sfugge neppure al lettore più distratto come Melville giochi con l’immagine della vecchia Spagna, di cui il capitano Cereno è l’emblema: imbellettato ed elegante su una nave alla deriva, senza acqua e priva di speranze, compito e annoiato, nobile e malato… Significativa è l’immagine della bandiera di Spagna usata come tovagliolo durante la mensa.
C’è un lieto fine? Senza voler anticipare eccessivamente, l’impressione è che sia parziale, anche se ciascuno può leggervi ciò che preferisce: un trionfo della giustizia, una nuova pace ritrovata, una redenzione oppure una vittoria maliziosa e perpetua di chi sembra solo in apparenza sconfitto.
In conclusione, mi è piaciuto molto leggere Benito Cereno non solo perché è un racconto di mare, è scorrevole, intrigante e tiene con il fiato sospeso nell’angoscia immobile e carica di fatalità, ma anche perché riesce a catturare l’attenzione del lettore con alcuni cambi di prospettiva: il narratore onnisciente che racconta gran parte degli eventi viene interrotto dal flashback introdotto dal capitano spagnolo, le cui parole vengono trascritte nella testimonianza conclusiva, mentre il finale è ancora una volta affidato al primo narratore, più tagliente e lapidario. Attraverso una tragica storia di mare, traspare l’aspetto più cupo e oscuro, profondo dell’animo umano.
SINOSSI
All’alba di una giornata del 1799, il capitano Delano, fermatosi sulle coste cilene per far acqua nell’isolotto di Santa Maria, avvista la nave San Dominique che sembra aver perso il governo e riesce a salire a bordo con qualche provvista. Il capitano spagnolo Benito Cereno, che pare terribilmente malato e perciò costantemente sorretto da un fedele servitore, racconta la terribile serie di sventure abbattutesi sulla propria nave, la quale trasportava un carico di schiavi neri e altra merce di valore…
L’AUTORE
Nato a New York nel 1819, a causa dei dissesti familiari a 18 anni Melville divenne mozzo su una nave; dopo aver tentato la via del giornalismo, si imbarcò nuovamente e visse numerose avventure in Oceania, dove, tra l’altro, lasciò la nave e visse con i cannibali. Tornò in patria nel 1844 e iniziò a scrivere; nel 1851 pubblicò il suo romanzo più celebre, Moby Dick, e nel 1866 iniziò a lavorare come impiegato di dogana a tempo indeterminato. Morì nel 1891.
IL LIBRO
Herman Melville, Benito Cereno, trad. Cesare Pavese, Giulio Einaudi Editore, Torino, 1942.
> https://www.ibs.it/benito-cereno-traduzione-di-cesare-libri-vintage-herman-melville/e/2564498429760